Tedx Talk di Andrea Barchiesi: Riflessioni sull’identità nell’era del metaverso
L’avvento del metaverso e l’evoluzione delle piattaforme digitali hanno creato nuove dimensioni per l’interazione e l’espressione personale. Tuttavia, questa transizione non riguarda solo la tecnologia, ma anche il modo in cui percepiamo e definiamo la nostra identità digitale.
In questo contesto, le metriche come like, follower e visualizzazioni sono diventate i parametri principali con cui misuriamo il nostro valore, sia personale che professionale. Ma siamo davvero consapevoli dell’impatto che queste metriche hanno sulla nostra autenticità?
Nel mio TEDx Talk, “Riflessioni sull’identità nell’era del metaverso”, esploro come il mondo digitale, attraverso uno “specchio infinito”, duplichi e frammenti la nostra immagine, sfidandoci a mantenere un equilibrio tra visibilità e consapevolezza personale.
Trascrizione del Tedx
Buonasera a tutti, è un piacere essere qui.
Io sono un business strategist, un digital strategist.
Che cosa significa?
Nella vita mi occupo di elaborare delle strategie e dei piani di sviluppo per aziende, istituzioni pubbliche, ma anche persone.
Negli ultimi 15 anni, mi sono interrogato sempre più frequentemente su una cosa, cioè sulla trasformazione digitale e su come essa possa influenzare e influenzi la nostra identità, la nostra percezione di noi stessi.
Di questo parliamo oggi.
Noi viviamo una realtà, un’identità fisica, la abitiamo ogni giorno, calpestabile, come dire.
Poi dobbiamo anche interfacciarci con questa identità digitale che non è calpestabile, ma che viviamo sempre ogni giorno.
Quindi iniziamo questa piccola esplorazione.
L’uomo ha sempre cercato di migliorarsi, ha sempre inseguito il miglioramento, ha sempre cercato di passare da uno stadio di conoscenza a quello successivo.
Andiamo a vedere perché.
Ha scelto, nel corso della storia, di fare questo. E come ci è riuscito?
Come diceva Aristotele e l’inizio del pensiero articolato della filosofia nasce da un atto di meraviglia.
Thauma, diceva Aristotele.
Noi lo traduciamo, un po’ per far scena sul palcoscenico,come meraviglia.
Ma in realtà thauma, nel greco antico, è un termine neutro, significa sorpresa di fronte a qualcosa che è sconosciuto.
Quindi sì, è una meraviglia, ma potrebbe anche essere una meraviglia negativa.
Un orrore.
È uno scostamento della nostra percezione che ci spinge a cambiare, ad interrogarci che ci spinge a migliorare.
Questo è il principio del nostro moto verso la conoscenza superiore.
Ma come l’umanità è riuscita a procedere?
Sicuramente con il confronto con l’altro e la società che ci circonda, con il confronto con tutto ciò che fa parte della nostra vita.
L’uomo ha creato uno specchio ma anche con il confronto con noi stessi.
L’uomo ha creato uno specchio, immaginatevelo.
Ha creato uno specchio nel quale poter riflettere se stesso.
Uno specchio finito con cui dialogare.
L’uomo ha creato uno specchio, vede la sua immagine riflessa ed è lì che inizia questa speculazione, questo dialogo con se stesso.
Quindi, uno specchio che riflette noi stessi, che provoca la riflessione.
Ma ad un certo punto, da qualche decennio, l’uomo ha creato anche qualcos’altro.
Uno specchio, che però non riflette la nostra immagine, ma la duplica.
Uno specchio che duplica la nostra immagine.
Pensate all’avatar, al profilo digitale.
Pensate all’identità digitale.
Non uno specchio finito che ci riflette, ma uno specchio infinito che ci duplica.
Con lo specchio finito, con la percezione reale di noi stessi ben delimitata riuscivamo a dialogare, ad avere un rapporto, La tesi, lo specchio, l’altro, noi stessi ci restituiva l’antitesi e, insieme, si poteva arrivare a una sintesi, che era il nuovo grado di conoscenza, ma con questo specchio infinito che non ha confini, incommensurabile, come dialoghiamo?
È difficile dialogare, perché se lanciamo la nostra tesi non arriverà nessuna antitesi con la quale effettuare una sintesi, o ne arriveranno tantissime, caso più probabile, e non riusciremo comunque ad affrontare la nostra sintesi.
E quindi sarà molto difficile progredire a uno stadio superiore di conoscenza.
Questo specchio infinito non riesce a restituirci la finitezza della nostra esperienza.
Abbiamo creato questa dimensione perché, tutto sommato, è il processo naturale della conoscenza quello che stiamo creando.
Questo è un processo bellissimo nel quale però, in questo momento, proviamo dolore e soffriamo anche un po’.
Questa nuova dimensione digitale che abbiamo creato e stiamo creando, ad un certo punto, ci confrontiamo con essa e abbiamo paura.
Abbiamo paura di questa nuova realtà.
La paura è una cosa positiva, perché crea meraviglia, crea stupore.
Ma induce l’uomo anche a cercare di buttare dentro questa dimensione delle coordinate con le quali orientarsi.
Quali sono le coordinate con le quali riusciamo a orientiarci in questo mondo digitale?
Attingiamo, fortunatamente, al logos, alla nostra esperienza, ai numeri.
Ed ecco che il digitale oggi, infatti, e questo lo possiamo capire anche noi, questa sera, è pieno di metriche, statistiche.
Come facciamo a capire se la mia idea funziona nel cerchio di amici?
Pubblico un post, poi andiamo a guardare quanti like fa.
Metriche.
Come facciamo a vedere se il nostro sito è fatto bene?
Se il nostro e-commerce è fatto bene?
Se il messaggio che mandiamo online è fatto bene?
Se il video che mandiamo su YouTube attira?
Andiamo a vedere le metriche.
Finché rimangono come coordinate di orientamento, va bene.
Ma forse le metriche, oggi, sono diventate qualcosa di più.
Questi numeri, queste statistiche sono diventate qualcosa di diverso.
Vi racconto un episodio.
Tanti anni fa, quando ero giovane ed ero art director in un’agenzia di comunicazione a Milano, facevamo spot televisivi, shooting internazionali, campagne advertising e avevamo bisogno di modelle o modelli, attori, attrici.
Quindi chiamavamo l’agenzia di modelle che ci forniva, puntualmente, i composit, questi fogli A5 con la foto del modello o della modella con le misure standard.
Poi giravamo, c’erano altre fotografie.
Noi chiamavamo e facevamo il casting.
Oggi lo sapete quello che succede se uno chiama un’agenzia di modelle?
La stessa cosa.
Ma c’è una nota in più in ogni email, se non addirittura nel composit.
L’agenzia di modelle si premura di comunicarci quanti follower o quanti seguaci, quanti fan ha nei social questa persona, quanto “performa” a livello social.
Se anche in quella foto ci fosse un pupazzo, noi saremmo invitati a prendere questa modella, questo pupazzo, e a convogliarla all’interno del nostro progetto.
Capite che qualcosa non funziona?
Che cosa è successo?
È successo che la quantità delle metriche è diventata la percezione e la misura della nostra qualità in certi ambiti, la misura del nostro valore.
E questo che cosa ci porta a fare?
Ci porta a comunicare sempre di più noi stessi per affermarci in questa nuova identità digitale.
Quindi ecco che comunichiamo.
Iniziamo a produrre contenuti, contenuti, contenuti.
Per fortuna non è più così, ma all’inizio, fino a qualche anno fa, se vuoi essere presente nei social, “almeno un video al giorno, a settimana”, “almeno tre o quattro foto su Instagram al giorno”, “12 tweet al giorno”.
Ci sono profili Twitter con più di 50.000 tweet.
Robe pazzesche.
Capite bene che i contenuti e le metriche sono delle trappole.
Chiaramente sono trappole e non solo.
Questo modifica la percezione e l’identità personale, modifica anche il nostro modo di comunicare e strutturare il pensiero.
I contenuti non solo devono essere prodotti in grande quantità ,ma devono anche essere virali.
Dobbiamo scrivere in modo tale che siano veloci, virali, trasmissibili e quindi destrutturiamo il contenuto.
Riduciamo grandi concetti a pochi punti:
“I cinque modi per essere più bello”
“Le 25 fotografie più belle della penisola italiana”
Cliccate!
Destrutturiamo e ricostruiamo in un modo superficiale.
Questa è una vera e propria trappola dei contenuti.
Questo è un modo distorto di percepire il nostro allineamento tra l’identità calpestabile, fisica, analogica, vera, con l’altrettanto vera, ma non calpestabile, identità digitale.
Dobbiamo allinearci, dobbiamo imparare ad allinearci.
Mentre salivo le scale pensavo a delle parole di Fabrizio De André.
Dobbiamo evitare di diventare quei mostri pieni di raziocinio da una parte e d’istinto dall’altra, che lui chiamava “cinghiali laureati in matematica pura”.
Sta succedendo questo.
Dall’altra le metriche, l’istintività del like posto su una foto.
Ecco, dobbiamo equilibrarci.
Quindi come si fa?
Come ne usciamo da questa cosa?
Io non ho nessuna verità in tasca da regalare.
Probabilmente quello che dico stasera, tra qualche mese, tra qualche anno, sarà falso, scorretto, perché è giusto che sia così.
L’identità, soprattutto digitale, cambierà.
Però qualche piccola indicazione, qualche piccola visione, nel vero spirito TED, ve la voglio dare.
Dobbiamo riappropriarci di un paio di concetti.
Il primo è quello della lentezza.
Lentezza.
Dobbiamo dilatare i tempi.
Dobbiamo far sì che i nostri messaggi non siano a breve termine: il like, la foto subitanea.
Dobbiamo iniziare a ragionare con la parte non istintuale dell’altro.
Non dobbiamo eccitare una risposta veloce dell’altro.
Dobbiamo invece imparare a concepire il tutto come un dialogo.
Dobbiamo imparare a concepire il tutto come un messaggio circolare, come un qualcosa che si “attacca” prima e si “attacca” dopo ad un grande flusso di coscienza e di conoscenza.
Dobbiamo imparare a provocare non l’istintività dell’altro, bensì la ragione dell’altro.
Dobbiamo dilatare i tempi, la lentezza.
Dobbiamo avere il tempo non di aspettare un like ,ma di aspettare una risposta ai nostri contenuti.
Sono due concetti profondamente diversi.
L’ultima parola e poi vi lascio.
È la leggerezza.
Uno dei pochi autori che ho frequentato costantemente negli ultimi anni, insieme a Flaiano, è stato anche Italo Calvino, che ha scritto delle pagine di letteratura e di saggistica memorabili,fantastiche.
In particolare il suo ultimo libro, “Lezioni americane”, che è stata la sua ultima opera, tant’è che non è ancora finita, perché è morto prima di completarla.
Lezioni americane contiene un capitolo stupendo: “La leggerezza”
Leggetelo se non l’avete fatto.
Ci introduce a un bellissimo concetto.
Per affrontare o per mettere nella giusta prospettiva tutto questo, cioè allineare la nostra identità personale, fisica, a quella digitale, dobbiamo riappropriarci del concetto di “leggerezza”, ma non quella leggerezza, come diceva Paul Valéry, di “una piuma sperduta nel cielo che vaga senza meta”, ma forse quella di un uccello, di una rondine che sa da dove viene, sa quello che sta facendo mentre vola e sa dove sta andando.
Cioè quella leggerezza fatta di responsabilità, determinazione e precisione nel messaggio che vogliamo dare. Quella leggerezza che ci consente di scaricare a terra, di tagliare via, di abbandonare tutti quei pesi in eccesso.
Le metriche, i contenuti, tutto.
Tutto questo.
Quella leggerezza che ci consente di vivere appieno la nostra identità, sia digitale sia personale, privata, di allinearle e, in definitiva, quella leggerezza che ci consentirà di vivere appieno quello che comunque sarà un bellissimo rinascimento digitale.
Grazie.
Alcune Riflessioni
Il paradosso del digitale: oltre la quantità per riscoprire l’autenticità
Viviamo in un’epoca in cui la velocità del digitale impone un ritmo serrato di produzione e consumo di contenuti. La tecnologia ha trasformato non solo il modo in cui comunichiamo, ma anche come costruiamo e percepiamo la nostra identità e il valore del nostro lavoro. Per le aziende, questo si traduce in una sfida: da un lato, il bisogno di essere presenti e rilevanti nel mondo online; dall’altro, il rischio di cadere nella “trappola del contenuto”, come evidenziato da Bharat Anand nel suo libro The Content Trap (consiglio caldamente la lettura di questo testo). In questo contesto, la qualità viene spesso sacrificata a favore della quantità, mentre il vero potenziale del digitale – le connessioni e le relazioni significative – viene trascurato.
Nel mio intervento al TEDx, ho esplorato queste dinamiche, partendo dalla questione centrale dell’identità. La nostra identità fisica, solida e ben definita, si trova ora a interagire con una nuova dimensione: quella dell’identità digitale. Questa nuova realtà non è riflessiva, ma duplica e frammenta la nostra immagine. L’identità digitale, dominata dalle metriche e dai numeri – like, follower, visualizzazioni – rischia di diventare un riflesso distorto, dove la quantità diventa la misura della qualità. E questo, non solo a livello personale, ma anche per le aziende e i brand. Come possiamo uscire da questa trappola? Come possiamo costruire una presenza digitale autentica e rilevante senza cadere nell’ossessione delle metriche?
La trappola del contenuto: quando le metriche sostituiscono il valore
Nel suo libro, Bharat Anand mette in evidenza un rischio che molte aziende corrono oggi: la “trappola del contenuto”, come egli lo definisce. Spesso, le imprese cadono nell’errore di pensare che il semplice fatto di produrre contenuti – e molti contenuti – sia sufficiente per avere successo online. Questo porta a una produzione incessante, in cui si cerca di catturare l’attenzione del pubblico attraverso strategie che puntano alla viralità e alla performance immediata. Il problema, come sottolineo anche nel mio TEDx Talk, è che la quantità non è sinonimo di qualità, e misurare il successo esclusivamente attraverso le metriche può distorcere la percezione del valore reale.
Le metriche, nate per orientare le nostre scelte, sono diventate esse stesse lo scopo.
Like, visualizzazioni e follower vengono interpretati come segni di successo, ma rappresentano davvero la qualità del contenuto? Sono persuaso del fatto che che la vera forza del digitale non sia solo nel contenuto, ma nelle connessioni che riusciamo a creare attraverso quel contenuto. È qui che molte aziende falliscono: creano un flusso costante di contenuti, ma non si preoccupano di costruire relazioni autentiche con il loro pubblico. Questo non solo aliena i clienti, ma può anche compromettere l’identità del brand.
Nel mio intervento, ho proposto una strada, percorribile ma ardua, che indica un ritorno alla “lentezza” e alla “leggerezza”, due concetti ordinati e puntuali che si contrappongono alla frenesia del digitale. Esso offre opportunità straordinarie per creare connessioni profonde e durature, ma solo se siamo disposti a rallentare e riflettere su ciò che davvero vogliamo comunicare. È tempo di smettere di inseguire le metriche, la viralità e la presenza a tutti i costi e cominciare a dialogare con i nostri clienti in modo autentico.
La lentezza come strategia
Nel mio TEDx Talk, ho richiamato il concetto di “lentezza”. In un mondo digitale dove siamo bombardati da informazioni a un ritmo incessante, la lentezza rappresenta un atto di ribellione strategica. Per le aziende, questo significa smettere di produrre contenuti serialmente solo per alimentare algoritmi e metriche, e cominciare a costruire dialoghi autentici e relazioni durature con il proprio pubblico. Il valore nel digitale non risiede nel contenuto in sé, ma nel modo in cui quel contenuto viene connesso alle persone e ad altri elementi dell’ecosistema digitale.
Per un imprenditore o un direttore d’azienda, questo significa ripensare il ruolo dei contenuti. Non si tratta più solo di raggiungere il maggior numero possibile di persone nel minor tempo possibile, ma di costruire un percorso di engagement autentico. La lentezza non implica inefficienza, bensì riflessione e strategia. Creare contenuti che invitano alla riflessione, piuttosto che alla reazione immediata, aiuta a instaurare relazioni di fiducia con i clienti. Non tutti i contenuti devono essere virali, ma ogni contenuto deve avere un significato e un valore duraturo.
Pensiamo, ad esempio, alla pubblicazione di un post sui social media. Spesso ci concentriamo sull’impatto immediato: quanti like, quanti commenti, quante condivisioni. Ma questi numeri sono davvero indicativi del valore che stiamo generando? Se, invece, ci concentriamo su contenuti che stimolano un dialogo più profondo con il nostro pubblico, otterremo connessioni più autentiche e durature. Questa è la vera forza del digitale: la capacità di costruire reti di persone connesse da interessi, valori e obiettivi comuni.
Leggerezza e responsabilità: una nuova filosofia per il successo digitale
Un altro concetto chiave del mio TEDx Talk è quello della leggerezza, nell’accezione ben delineata in “Lezioni Americane” di Italo Calvino. La leggerezza, in questo contesto, non va confusa con superficialità. Al contrario, è sinonimo di precisione, responsabilità e determinazione nel modo in cui comunichiamo online. Nel digitale, spesso tendiamo a sovraccaricare i nostri messaggi di contenuti ridondanti e poco significativi, nel tentativo di essere presenti ovunque e in ogni momento. Ma questa strategia rischia di appesantire il nostro brand, rendendolo meno autentico.
La vera potenza del digitale risiede nella capacità di creare ecosistemi in cui i contenuti e le persone interagiscono in modo naturale e fluido. La leggerezza, come la intendo io, è proprio questo: imparare a lasciare andare tutto ciò che è superfluo, concentrandosi solo sui contenuti che creano valore e relazioni autentiche. Invece di accumulare metriche, dobbiamo pensare a come liberare il potenziale del nostro brand attraverso messaggi mirati, chiari e significativi.
Un’azienda che comunica con leggerezza sa dove sta andando e perché. Non è schiava delle metriche, ma usa i dati come uno strumento per orientarsi, non come un fine. Questo approccio, che combina lentezza e leggerezza, permette di creare contenuti che non solo raggiungono il pubblico, ma che lo coinvolgono e lo fanno sentire parte di una comunità più ampia. È così che un brand può emergere e prosperare nel lungo termine, costruendo una reputazione basata su valori autentici e connessioni reali.
Uscire dalla trappola del contenuto: le strategie
Sia il mio TEDx Talk che il libro di Bharat Anand convergono su un punto fondamentale: il vero successo nel mondo digitale non si misura attraverso la quantità di contenuti o le metriche superficiali, ma attraverso la qualità delle connessioni che riusciamo a costruire. Le aziende devono smettere di inseguire metriche vuote e iniziare a creare contenuti che generino valore reale e relazioni autentiche. Questo richiede un cambio di mentalità: dalla frenesia della produzione continua, alla lentezza riflessiva; dalla superficialità virale, alla leggerezza responsabile.
Gli imprenditori e i quadri dirigenti delle imprese hanno oggi l’opportunità di guidare questo cambiamento. Uscire dalla trappola del contenuto significa investire in strategie che valorizzino il dialogo e la connessione piuttosto che la semplice performance numerica. Significa creare un ecosistema digitale in cui il brand non sia solo un produttore di contenuti, ma un punto di riferimento per il proprio pubblico. In questo modo, sarà possibile affrontare il futuro digitale con maggiore consapevolezza, autenticità e successo.
Se stai cercando di costruire una strategia digitale che vada oltre le metriche e che metta al centro la qualità delle connessioni, è il momento di adottare una nuova visione: rallentare, riflettere e comunicare con qualità. Quella qualità idonea e capace di attrarre e sviluppare contatti proattivi. Questo non solo ti permetterà di distinguerti, ma ti offrirà anche la possibilità di costruire relazioni autentiche e durature con il tuo pubblico.
Il ruolo cruciale del Business Strategist
Per fare questo, soprattutto In un mondo digitale così complesso, frammentato e cangiante, la figura del business strategist è fondamentale. Un business strategist non si limita a pianificare azioni a breve termine o a ottimizzare metriche superficiali: il suo ruolo è quello di guidare le aziende attraverso un percorso di crescita che si fonda su connessioni autentiche, costruzione di valore e strategie a lungo termine. Il business strategist è colui che riesce a bilanciare l’uso delle tecnologie con una visione umana e profonda, mantenendo sempre l’attenzione sulla coerenza dell’identità aziendale e sul dialogo con il pubblico.
Nel contesto delineato da una certa letteratura moderna e solida, e di cui accenno nel mio TEDx Talk, questo professionista diventa una guida indispensabile per evitare la sterilità di una comunicazione basata unicamente sulla corsa alla performance quantitativa e per costruire sistemi di relazione digitali solidi e orientati alla connessione. Il suo compito è quello di creare una visione integrata, in cui ogni azione, ogni contenuto e ogni decisione si inseriscono in un quadro più ampio e coerente con i valori dell’azienda. Inoltre, il business strategist è colui che sa gestire la lentezza e la leggerezza, creando contenuti che non solo performano in termini numerici, ma che costruiscono relazioni e comunità nel tempo. In un mercato sempre più competitivo, avere al proprio fianco un professionista in grado di pensare in modo strategico e sistemico fa la differenza tra una presenza digitale che si limita a seguire le tendenze e una che riesce a creare un impatto reale e duraturo.
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